VIAGGIO NEL DNA DELLE ORGANIZZAZIONI Le teorie contingenti(r)
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Le teorie contingenti nascono in contrapposizione agli innumerevoli tentativi di ricercare logiche universali uniche per i comportamenti delle organizzazioni. Negli anni che vanno dal 1950 al 1960 nascono parecchi gruppi di ricerca che si sforzano di provare l’infondatezza delle logiche universalistiche. Questi confluiscono in un insieme di conoscenze che vanno sotto il nome di “teorie contingenti”; sono piuttosto delle norme sociali che indicano su cosa effettuare la ricerca, sulla base di quali assunti e con quali metodi. La scuola delle teorie contingenti nasce nel momento stesso in cui analisi statistiche sulle Organizzazioni (Woodward, 1965), rivelano che nelle Imprese vincenti non sono sempre applicati principi rigorosi quali quelli di Fayol o di Taylor anzi questi sono spesso disattesi là dove sono stati adottati come standard. La pretesa universalistica delle teorie classiche veniva sempre più considerata un paradigma superato e quindi cresceva il bisogno più relativista. Il paradigma organizzativo, emerso negli anni che vanno dal 1960 al 1970, ha condotto ad un approccio misto fra quello delle teorie classiche ed una visione biologica dei fenomeni organizzativi. Tale approccio ha condotto ad una teoria del tipo causa-effetto dove la causa delle mutazioni è l’ambiente, l’effetto è quello che si produce sulla struttura organizzativa. In sintesi l’Organizzazione reagisce agli stimoli dell’ambiente mutando attraverso un processo di riorganizzazione che porta ad una modificazione delle strutture organizzative. E’ quindi una scuola di pensiero diversa rispetto a quella classica poiché contrappone un approccio biologico ad uno rigidamente meccanicistico. Alla base dell’approccio contingente è adottata quella che è chiamata metafora biologica basata sui seguenti concetti: 1. sistema aperto – i sistemi organici interagiscono continuamente con l’ambiente secondo un ciclo di input-elaborazione-output 2. omeostasi – i sistemi organici si mantengono in uno stato di equilibrio attraverso un’attività di controllo dell’output e di controreazione regolata attraverso un feedback negativo 3. struttura, funzione – gli organismi vivono attraverso l’uso interrelato di strutture, la distribuzione di funzioni in capo alle strutture e l’evoluzione delle stesse 4. varietà richiesta – i meccanismi di regolazione, per consentire ai sistemi organici di adattarsi, devono avere lo stesso grado di varietà dell’ambiente 5. evoluzione del sistema – i sistemi organici si evolvono in funzione delle variazioni dell’ambiente ed il risultato dell’evoluzione è contingente, personale ed assolutamente non universale quindi non applicabile sempre ed in tutti i casi 6. equifinalità – i sistemi viventi hanno modelli flessibili di organizzazione che permettono di raggiungere risultati specifici utilizzando punti di partenza diversi, differenti risorse attraverso modalità diverse. L’obiettivo è quindi quello di ottenere configurazioni organizzative tipo a fronte di specifiche tipologie d’ambiente. Lawrence e Lorsh (1967) applicando e sviluppando tale approccio arrivano alla determinazione che il sistema organizzativo si compone di sottosistemi e che la differenziazione organizzativa di questi dipende dalle caratteristiche dei sottoambienti di riferimento mentre il loro grado d’integrazione dipende dal loro grado di differenziazione e quindi di complementarietà e dal grado di stabilità dell’ambiente globale circostante. Questa scoprì che, se non vi era alcun legame fra organizzazione e successo aziendale, vi era una buona correlazione fra struttura organizzativa verticale e tecnologie utilizzate per i sistemi di produzione. Riscontrò inoltre che, classificando la tecnologia nelle seguenti classi:
la teoria scientifica meccanicistica sembrava essere il metodo più efficiente per la produzione di grande serie e di massa mentre negli altri tipi di tecnologia prevalevano forme organizzative più vicine al modello organico. Secondo la Woodword la produzione di processo è la più evoluta in quanto consente di spingere al massimo la tecnologia d’automazione e di utilizzare le componenti organiche solo per gli aspetti d’ideazione, commercializzazione, supervisione, controllo e risoluzione delle eccezioni. In tale caso, l’organizzazione può essere adattata agli individui ed ai loro bisogni individuali e sociali. Il passaggio da una forma tecnologica meno evoluta ad un’altra più evoluta comporta drastici cambiamenti organizzativi. Prendendo come base il lavoro di Chandler (1963), alcuni ricercatori hanno ipotizzato e successivamente verificato sul campo che l’assetto organizzativo dipende più dalla strategia che adotta l’Organizzazione che da situazioni ambientali e tecnologiche. Le Organizzazioni scelgono una strategia che corrisponde ad una determinata configurazione delle variabili ambientali e tecnologiche in funzione del posizionamento delle stesse nell’ambito del contesto socio-economico. Il modello ideato da Newman e Logan (1971) riassume perfettamente tale concetto (fig. A3). In questo, come prima azione, si identifica la strategia in funzione del posizionamento dell’Organizzazione e si traduce questa in obiettivi attraverso una rigorosa pianificazione. Successivamente si esegue questa attraverso la programmazione, l’esecuzione ed il controllo dei compiti e si ricicla a livello di strategia per controllare la coerenza di quanto realizzato con la strategia e quindi con gli obiettivi stabiliti. Le Organizzazioni grandi rispetto alle piccole presentano:
Da analisi statistiche condotte a livello mondiale, si è costatato che tale fenomeno è comune a tutte le Organizzazioni indipendentemente dalla cultura e dal posizionamento geografico. Una grande Organizzazione con molte risorse umane aumenta l’efficienza specializzando le proprie attività ed incrementando gli strumenti di controllo e coordinamento. Tale integrazione è stata espressa da vari ricercatori attraverso dei modelli. I modelli espressi da j.R.Galbraith (1970-1974) si basano sul concetto di predicibilità dei compiti.
In pratica la struttura organizzativa è intesa come un sistema in grado di svolgere dei compiti con diverso grado di predicibilità. La predicibilità è espressa da: P → I = f (i, n, c). In altre parole questa dipende dall’ampiezza delle informazioni richieste per l’efficace funzionamento del sistema organizzativo (I) che, a sua volta, è funzione di:
La variabilità organizzativa è quindi spiegata come risposta all’ammontare d’informazioni che la situazione richiede cui si può far fronte attraverso l’introduzione, a costo crescente, d’adeguati strumenti gestionali ed organizzativi. La scuola di Aston rappresenta il tentativo di fare dell’organizzazione una scienza esatta basata su leggi naturali da scoprire tramite elaborazione statistica di grandi quantità di dati provenienti da molti campioni di Organizzazioni tipo. Henry Tosi creò una scuola di pensiero che concentrò i suoi sforzi sull’integrazione di Organization Design ed Organization Behavior (fig A4), vale a dire fra disegno dell’Organizzazione e studio della personalità e dello stile di direzione.
Questi, attraverso un approccio sistemico divide l’Organizzazione nei suoi sistemi componenti e la inserisce in un’ambiente che ne determina il tipo di organizzazione. I sistemi operativi e lo stile di direzione devono essere progettati in modo contingente rispetto al tipo di struttura organizzativa ed a loro volta gli individui devono essere selezionati per poter essere funzionali al tipo d’assetto organizzativo risultante dalla relazione ambiente-organizzazione. Henry Mintzberg (1979, 1983) s’impegna nella ricerca di tipologie standard di Organizzazioni rappresentative di particolari tipologie di ambiente. 1. l’unità d’indottrinamento 2. il vertice strategico 3. la tecnostruttura 4. lo staff di supporto 5. la linea intermedia 6. il nucleo operativo. |
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